giovedì 22 ottobre 2015

Crescere

Un pezzo di Carroll, da Through the Looking Glass, citato molto spesso, anche da Stefano Benni nel Bar sotto il mare, recita così:

“Intendo dire”, disse Alice, “che uno non può fare a meno di crescere.”
“Uno forse non può”, disse Humpty Dumpty, “ma due possono. Con un aiuto adeguato, avresti potuto fermarti a sette anni.”

Per molto tempo l'ho considerato un "semplice" manifesto di contestazione nei confronti del crescere, diventare serii, maturi, etc. Ma avendo, solo adesso, l'occasione di vedere un bambino crescere, mi rendo conto delle sfumature e della profondità di questa contestazione. Un bambino a tre anni (all'epoca di Carroll forse anche a sette) non ha meno "capacità" (proprio nel senso del volume in geometria, la proprietà di accoglienza di un recipiente) di un adulto: ha la stessa possibilità di comprendere una spiegazione ben fatta, la stessa sensibilità e attenzione per la realtà, per la natura, per i sentimenti, una memoria e un'attenzione forse persino maggiori. Quello che lo distingue da un adulto è il "contenuto": da bambini ad adulti non si cambia quasi per nulla in capacità, si passa però da vuoti a pieni. Si viene riempiti da un universo di informazioni ed esperienze che si accumulano e formano la persona. In un certo senso si potrebbe dire, anzi, che la capacità effettiva, il volume disponibile, diminuisce col crescere.

Non so cosa voleva dire Carroll e neanche cosa volevo dire io. Non sono più tanto sicuro di voler difendere la fanciullezza, PeterPan, etc. Ci sono adulti buoni, adulti attenti, adulti sensibili e volenterosi. Anzi, la bontà è più spesso adulta che bambina (però i figli dei buoni genitori sono buoni anch'essi). E vivere in comune necessita che si cresca e ci si "riempia", ci si limiti, ci si disciplini. 
Forse capisco un po' meglio quello che voleva dire Humpty Dumpty: un bambino è un recipiente immenso, anarchico e terrificante di possibilità, di mondi alternativi, di vite capovolte, di rivoluzioni, di rinascite o di devastazioni. Un uovo seduto in bilico su un muro non può fare a meno di restarne affascinato.

venerdì 19 giugno 2015

Alice cascherina

Un bambino di tre anni oggi usa un tablet come me, forse meglio. Sfoglia i video di youtube uno dopo l'altro, si appassiona a chilometri di filmati penosi (e angoscianti) dove mani misteriose manipolano per ore ovetti di pasqua, macchinine colorate o monster truck sadici. Corre su una piccola bici senza pedali e senza rotelle, in equilibrio per discese o salite, senza mai sentire il bisogno di riposarsi. Raramente guarda la - lentissima per lui - televisione e ancora piu' raramente riesce a tenere lo sguardo a lungo su un episodio di cartoni animati (concepito da menti antiche). L'infanzia oggi - per noi genitori - e' un mistero profondo e affascinante, nessun ricordo dei nostri primi anni di vita puo' aiutarci a districare questo caos informe di cose. Sono cose veramente nuove solo per noi: per questo bimbo di tre anni tutto e' nuovo, e dunque come puo' accorgersene?

La sera, finalmente nel letto, questo bambino di tre anni ci chiede di leggergli delle storie, il suo desiderio sembra solo una trovata per restare sveglio ancora un po'. Solo per un caso scegliamo nella pila di libretti infinitamente illustrati, un libretto che di illustrazioni ne ha pochissime: le favole al telefono di Gianni Rodari. Non so spiegarmi come questo piccolo selvaggio che sembra disponibile solo agli stimoli fosforescenti della post-post-post-modernita', improvvisamente si acquieta e ci ascolta.



Ho avuto dei brividi di emozione quando, immaginando il suo totale disinteresse, l'ho sentito chiedermi di raccontargli la "storia di Alice che cade nella conchiglia" (parole sue, che parla pochissimo e male), qualche giorno dopo avergliela letta una prima volta. E pure la pioggia di confetti, e Giovannino che tocca il naso al re, etc. etc. Le vuole sentire, e' davvero contento. E dopo tre, massimo quattro, si addormenta felice. Come fossimo in una favola.

Sono storie eccezionali, non c'e' che dire. A noi adulti colpisce l'unione meravigliosa di reale e surreale, stretti a poche parole di distanza, compressi insieme (e convincenti) in pochissime righe, una pagina o due per ogni storia. A lui forse, questa unione lo rassicura. E' cosi' che vede il mondo: ci sono le bambine, c'e' il mare, ci sono le conchiglie, e non c'e' niente di strano a tuffarsi per diventare un delfino e ritrovarsi, invece, intrappolato in una conchiglia. E' una storia plausibile, con un brevissimo momento di pathos e un finale che finisce, come dev'essere.

Come si capisce dalle righe piu' sopra, non siamo fanatici dell'antico, ma e' davvero piacevole, forse proprio per questo, scoprire che alcune cose "antiche" sono appassionanti davvero e non per abitudine. Ci fa sentire piu' giovani.

venerdì 22 maggio 2015

Tai chi

Ho fatto alcuni (pochi) pensieri sul tai chi, che pratico da tre mesi. Per non dimenticarli li scrivo qui


  1. Non so se ho capito e/o se mi interessa la filosofia, ma mi piace l'ambientazione. E' un bel gioco di ruolo e il personaggio che si interpreta ha una postura migliore della mia. E' più elegante, più sensibile, più attento, più consapevole. Ha più tempo di me.
  2. Una tale maggiore attenzione al proprio corpo offre a questo personaggio (che poi sarebbe me mentre pratico il taichi) un ventaglio di nuove possibilità, sorprese, interessi.
  3. Il taichi inoltre, se ben insegnato, appare come una scienza dura, come la fisica insomma. Non si può ingannare, o per lo meno è molto difficile. C'è sempre un banco di prova. Come in fisica gli esperimenti dimostrano (quasi) senza ombra di dubbio quando la teoria è giusta o sbagliata, così nel taichi la pratica (il corpo) svela qualunque imbroglio. Le parole dell'insegnante sono sempre vere o false. Non c'è vaghezza, ambiguità, soggettività.
E poi c'è l'indimenticabile 


lunedì 4 maggio 2015

L'edìpeo wikipedico

Ho scoperto un lapsus (collettivo?) molto divertente. Riguarda la festa della mamma: pare che molti ricordano un periodo, identificato più o meno con gli anni ottanta o gli anni novanta del secolo scorso, a seconda della generazione di appartenenza, in cui la festa si celebrava in data fissa, l'8 maggio, e solo dopo si è deciso di festeggiarla la seconda domenica di maggio, con data variabile quindi.

E' un errore, la festa della mamma dagli anni '50 si celebra sempre la seconda domenica di maggio.

Il lapsus l'ho riscontrato in una percentuale non piccola (ma comunque inferiore al 50%) tra amici, colleghi e parenti "intervistati" sull'argomento, ma soprattutto su internet. La pagina "festa della mamma" di wikipedia è l'origine più probabile dell'errore, o comunque un suo ripetitore/amplificatore. La versione di oggi recita: ",,,inizialmente la data era fissa e per circa quarant'anni cadde sempre l'otto maggio; solo a partire dal 2000 è diventata gradualmente una festa mobile, celebrata la seconda domenica di maggio come in tanti altri paesi del mondo". Con un testo simile, si ritrovano altre pagine che riportano come certo questo falso ricordo. Più sotto allego l'immagine statica di alcune tra le pagine trovate oggi, inclusa wikipedia: preferisco non linkarle (probabilmente qualcuno le correggerà).

A quanto pare nessuno mette in dubbio che oggi la data sia variabile, ma davvero molti sono convinti che in un recente passato la data era fissa, l'8 maggio. Alcuni arrivano a "spiegare" il passaggio da una data fissa a una mobile con misteriosi "motivi commerciali". Sarebbe interessante, al contrario, studiare cosa abbia spinto tanta gente a ricordare l'8 maggio come data fissa (forse un'assonanza con l'8 marzo festa della donna, che - per gli italiani - coincide con la mamma?).

Il caso di wikipedia è davvero curioso. Sfogliando la cronologia delle modifiche si vede che negli ultimi anni c'è stata una lotta tra sostenitori della versione corretta (sempre la seconda domenica di maggio) e sostenitori di quella errata (8 maggio fino a qualche anno fa). Per arrivare a far vincere la versione errata, alcuni autori hanno aggiunto riferimenti poco chiari o di consultazione non immediata (ad esempio libri introvabili, senza specificare il numero di pagina e senza citazioni precise).

La materia del contendere ovviamente è risibile, ma forse qualche studioso di memi o altre diavolerie moderne potrebbe trovarla interessante.

In questa cartella ho inserito i pdf di alcune pagine web consultate oggi, e le pagine di giornale (dall'archivio storico de La Stampa) che riportano la celebrazione della festa della mamma, in molti anni distribuiti dal 1957 al 2004, sempre la seconda domenica di maggio.





sabato 11 aprile 2015

La vera scienza si usa

C'è anche il problema della speculazione scientifica. Non nel senso del pensiero, ma nel senso della bolla. Speculativa. Scienza che cresce sul niente. Milioni di articoli che citano se stessi senza dire niente di veramente nuovo o interessante. Le citazioni sono diventate il sale della scienza, promuovono carriere accademiche, aprono i forzieri dei finanziatori, schiavizzano eserciti di postdoc. Le riviste scientifiche vogliono una fetta di questo mercato emergente e chiedono sempre più spesso soldi per la pubblicazione (dando in cambio l'open access). Ma cosa c'è che non va? Come faccio a dire "che cresce sul niente"? Sarà che i miei articoli non vengono altrettanto citati? Invidia?  E i miei colleghi che condividono questa sensazione di apocalisse, sono anche loro invidiosi? Non esiste un modo per far esplodere la bolla? Una misura oggettiva del valore di tutti questi articoli che ci sembrano insensati e che ricevono infinite citazioni?

L'unica cosa che mi viene in mente è - lo riconosco - un po' ingenua, forse irrealizzabile. Aggiungere alla fine di un articolo non solo la bibliografia ma la "usografia". Quali articoli ho veramente usato per la mia ricerca? Non so, in questo momento, come definire inequivocabilmente "uso". Ma so che molte delle citazioni che sommergono certi articoli sono citazioni vuote, citazioni di passaggio, citazioni del tipo "ti cito perchè hai il titolo giusto, perchè sei famoso, perchè hai tante citazioni, ma non so bene neanche che hai scritto". Queste citazioni sono l'origine del disastro. Nella mia ricerca ho sicuramente fatto uso dei risultati di qualcun altro, su cui ho costruito i miei. Ma sono pochi. Pochi buoni articoli di altri sono la vera base della mia ricerca. Ho usato pochi buoni articoli, per fare la mia ricerca. E se la mia ricerca è buona qualcun altro la userà. Solo una ricerca usata è una ricerca che merita.

Un tempo, quando mi chiedevo cosa fosse vero per la scienza, mi fermavo al pensiero feyerabendiano del "è scienza quel che viene accettato dalla comunità scientifica, è vero quel che viene riconosciuto vero dalla grande impresa collettiva chiamata scienza", ma non mi domandavo cosa volesse dire "riconoscere vero". A ripensarci, credo che "riconoscere vero" vuol dire "usare".

Ora bisogna capire cosa vuol dire "usare".,,

[edit del gennaio 2017: mi e' venuto in mente un modo di quantificare automaticamente il livello d'uso della citazione; in ogni articolo le citazioni vengono fatte a "gruppo" o "singole", si potrebbe distinguere dando basso peso alle prime e alto alle seconde]

Sauron non esiste, gli orchi sì

Ora mi sembra banale, qualche giorno fa (sull'onda di alcuni fatti), avevo ragionato sulla sensazione di crescente malvagità e diffusione del terrorismo, soprattutto di matrice islamica. L'unica spiegazione che mi sono dato è l'amplificazione di un circolo economico virtuoso fondato sul commercio delle armi. Che trae vantaggio dall'assenza di istituzioni. In questo momento molti grandi paesi che per decenni hanno avuto governi abbastanza stabili (libia, siria, iraq, yemen) sono - anche se con gradi diversi - senza istituzioni in grado di governare. Senza legge, senza guida, senza cultura, senza organizzazione, questi popoli vivono giorno per giorno, e frazioni non trascurabili di questi popoli scelgono la violenza e la distruzione per guadagnarsi il pane. C'è un vantaggio nell'assenza di potere: la guerra permanente. Consumo infinito di armi. Questo è quello che accade in una civiltà senza regni. La guerra permanente è la condizione in cui l'uomo è vissuto per millenni ed è la spiegazione più plausibile per il mito del Male, l'Oscurità, il Demonio. 

lunedì 2 marzo 2015

Sotto il vestito niente

Troppe volte in questi giorni mi e' capitato di leggere articoli su internet a proposito di cosa gira negli articoli su internet, tipo questo
o sulla "vita iperconnessa" tipo questo
o sulla privacy tipo questo

E mi e' venuto in mente che dovevo trovare un pensiero che fermi tutto. Un pensiero che tagli corto, che in qualche modo interrompa la sega mentale e non lasci dubbi. Il pensiero che ho trovato ha un corrispettivo fumettistico nell'opera "Arq" di quel genio assoluto del fumetto che e' il belga Andreas.

In accordo con buona parte delle teorie cognitive moderne la cognizione umana e' radicata nel corpo.

Di fronte a tutta questa azione puramente mentale che viene continuamente dispiegata su internet, cosa dice il nostro corpo? Il nostro corpo e' seduto, sempre piu' immobile, su una sedia. Protesta ogni tanto, lanciando segnali di dolore attraverso i nervi cervicali. Per il resto non ha niente da dire. Il nostro corpo non partecipa (se non in forma di sit in o resistenza passiva) a tutta questa cognizione.

E' evidente che la vita su internet e' scorporata e quindi condurra' da tutta altra parte rispetto ai nostri corpi. Il mondo visto da internet non e' il mondo dei nostri corpi. Penso anche che prima o poi dovremo fare i conti con questa differenza.